martedì 1 gennaio 2013

Dal paese del pescegatto

Pubblichiamo un articolo, scritto d'estate scorsa su richiesta di una rivista toscana, che non ha ancora visto luce dopo diversi mesi.

                                                        di Yukari Saito

L'arte di convivere con il terremoto

Più di 10 anni fa, quando il Campanile in Piazza dei miracoli aveva ancora i fili d'acciaio tiranti, dopo averne mandato un servizio alla stampa giapponese parlavo con il redattore. «Se la Torre si trovasse da noi, l'avrebbero smontato per ricostruirla su una base più solida», commentava il mio interlocutore. Egli era assai colpito dal fatto che vi si dedicasse così tante energie in termini economici e intellettuali. 
Eravamo, tuttavia, d'accordo che ricostruendola il monumento avrebbe perso il suo fascino e l'unicità nel mondo.
Chi arriva in Giappone dall'Europa noterà subito che la maggior parte degli edifici sono di costruzione recente. E vi si vedono i lavori di distruzione e di costruzione molto più sovente che di restauri. Sarà per i materiali usati, il legno e la malta per le case al posto di pietre o mattoni, ma la brevità della vita dei palazzi in cimento armato dovrebbe trovare qualche altra spiegazione.

Le apocalittiche scene dell'11 marzo 2012, le grosse onde nere che spazzavano via le costruzioni insieme alle vite per centinaia di chilometri di coste nel nord est del Giappone, potrebbero suggerirci qualche chiave di lettura. Benché quelli erano di una scala davvero eccezionale, i grossi sismi devastanti erano noti a molti, almeno tra i meno giovani. Tant'è che il terremoto occupa al primo posto tra i fenomeni più temibili elencati in un proverbio. (Lo seguono il fulmine, l'incendio poi il tifone, che un equivoco ci tramanda come padre autoritario.)

E' probabile che quello spaventoso sisma ci abbia rafforzato la concezione fugace della vita e il rifiuto - forse inconscio - di contare sull'eternità, le caratteristiche già diffuse tra la popolazione dai tempi antichi. Si prepara per il peggio con dei piccoli e a volte geniali accorgimenti, ma quando succederà, succederà e c'è poco da fare...


Questa rassegnazione davanti alle forze naturali indusse i giapponesi del medioevo a pregare le divinità e a graziare i nemici (perché credevano che fossero le maledizioni dei vinti a provocare le calamità naturali). 

E nell'età moderna, cercarono di sdrammatizzare con la satira raffigurando il pescegatto come artefice delle scosse; negli ultimi decenni, invece, si tende ad andare avanti escludendo dal pensiero ogni probabilità di rischio (come hanno fatto le autorità di controllo dell'energia atomica a lasciare a costruire 18 centrali con 54 reattori in un arcipelago pieno di faglie attive).



La doglia della rinascita o l'agonia della morte?

Molti dichiarano che l'11 marzo dell'anno scorso è stato uno spartiacque per loro: come se il mondo e la vita avessero mutato completamente l'aspetto e il senso. È dovuto di sicuro all'incidente della centrale nucleare di Fukushima più che al terremoto. A parte le immaginabili complicazioni per la ricostruzione che la contaminazione radioattiva ha comportato, stiamo assistendo ad alcuni fenomeni sociali nuovi da considerarsi non più passeggeri.

Uno di questi è la sparizione pressoché totale della fiducia che i cittadini avevano nelle autorità. Il fatto che allo Stato non interessa proteggere i cittadini era risaputo solo tra una minoranza esigua dei giapponesi. A meno che qualche incidente grave non le toccasse direttamente, la gente non dubitava la buonafede delle autorità come i figli non dubitano mai i genitori. Ma, il disastro di Fukushima e gli interventi del governo altrettanto disastrosi, pieni di bugie, di omissioni e del cinismo hanno reso una grossa fetta della popolazione direttamente coinvolta e, grazie anche agli strumenti tecnologici, il Re si è scoperto nudo. Soprattutto i giovani, più esposti al rischio delle radiazioni e più informatizzati, bruscamente svegliati dal tepore, hanno cominciato a interrogarsi seriamente sul futuro che vogliono e a informarsi su che cosa devono fare per ottenerlo.

Ciò ha provocato il secondo fenomeno: i cittadini hanno cominciato a scendere in piazza per chiedere al Governo di smettere di prenderli in giro e di cambiare la linea di politica energetica in indipendente dall'energia atomica. Sono la gente comune, donne e uomini di tutte le età e molte famiglie, persone non organizzate che si muovono di propria iniziativa che cambiano l'immagine dei giapponesi, finora noti per la loro reticenza alle manifestazioni politiche.


A favore delle generazioni future
Nello stesso tempo, incoraggiati dalla vittoria italiana nel referendum contro nucleare, in varie città giapponesi si sono organizzati i comitati per chiedere di poter decidere sul futuro delle centrali nucleari nel territorio attraverso un voto. Secondo i promotori, i cittadini, sia i sostenitori che gli oppositori del nucleare, sono ormai sufficientemente maturi per poter assumersi la responsabilità della propria scelta senza delegare ai politici le decisioni scomode. La maggior parte dei politici per ora respinge la richiesta, ma tutti sanno che la battaglia è appena all'inizio.
Si acuisce, dunque, il conflitto tra le due parti: da una parte ci sono la lobby nucleare dura a morire che controlla i mass media e la gente che preferisce ancora non pensarci forse perché incapace di guardare al di là degli interessi immediati; dall'altra ci sono le persone che sanno che tacere ora, come hanno fatto fino a ieri, significa rendersi complici per un secondo Fukushima di cui avvertono minacce reali. Chi vincerà?

«Alla Tanabata, festa della via lattea del 7 luglio, in cui si preparano i bigliettini di desiderio da porre al cielo, mio marito ha scritto: che il Giappone torni ad essere un Paese che possiamo vantare con i figli e i nipoti», racconta Miwako Inoue, ex abitante del comune confinante con la centrale di Fukushima, scappata con il marito e due figli poche ore dopo il primo scoppio contravvenendo all'ordinanza di restare a casa perché sapeva del pericolo essendo stata impiegata presso il medesimo centrale. «I ragazzi sono la nostra speranza. Loro potrebbero far rinascere questo paese, ma dobbiamo salvare il territorio per permettergli di lavorarci».

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