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Se questo è un uomo?
«L’uomo imparò a coltivare la terra. Imparò ad allevare gli animali. Coltivare e allevare sono due atti che ci rendono umani. Un giorno però si è reso impossibile coltivare, allevare o pescare, nonostante la terra, gli animali e i pesci siano sempre lì. Com’è possibile, allora, non chiederci se questo è ancora un uomo?» Si interroga Jotaro Wakamatsu, poeta di Fukushima, residente appena fuori della zona off limit 20 chilometri dalla centrale nucleare teatro del disastro cominciato l’11 marzo del 2012.
Forse pochi sanno che la provincia di Fukushima, divenuta famosa come fonte di contaminazione radioattiva, era un’area di avanguardia giapponese per l’agricoltura biologica, con 200 aziende attive e altre 500 in via di conversione.
(c) Yukari Saito
Anche Iitate-mura, oggi di notorietà mondiale per i punti caldi di radiazioni e
delle tracce di plutonio trovati sul territorio, nonostante la distanza di 40 chilometri
dalla centrale di Fukushima Daiichi, era stato addirittura premiato come il
villaggio agricolo più bello del Giappone. Vi vivevano,
difatti, anche giovani nativi di Tokyo, che innamorati del luogo avevano scelto
di trasferircisi per diventare agricoltori biologici
o allevatori di mucche.
Poi un giorno, questa provincia del terre fertili, monti stupendi, laghi
e mare pieni di pesci ha cessato di essere una terra felice.
Eppure i cambiamenti non si notano: anche dopo l’evacuazione e la
dispersione dei loro abitanti umani, le montagne coperte di neve, i boschi e i
campi restano meravigliosi sotto il cielo ampio e profondo che la gente di
Fukushima considera “il vero cielo”, molto diverso da quello che copre Tokyo.
«A più di dieci mesi dal disastroso terremoto dell’11 marzo, per la
popolazione di Fukushima la vita non accenna a tornare alla normalità», ha
affermato il prof. Fuminori Tanba dell’università di Fukushima incontrando una
delegazione degli ospiti stranieri alla Global
Conference for a Nuclear Free World. Era il 13 gennaio, alla vigilia della
conferenza internazionale di Yokohama e il gruppo, quarantotto persone
provenienti da circa trenta paesi del mondo accompagnato da vari attivisti
delle associazioni giapponesi e dai giornalisti, ha incontrato
diversi rappresentanti della società civile locale. Secondo Peace Boat, principale
organizzatore sia della conferenza che della visita a Fukushima, era la prima visita
di un gruppo così consistente di varie nazionalità dopo il disastro.
Tanba, che studia la ricostruzione delle comunità colpite dai disastri, analizza
l’impatto del terremoto e del disastro nucleare nella provincia di Fukushima: «In primo
luogo, gli evacuati e i rifugiati di propria iniziativa si sono dispersi in uno
spazio vastissimo, perfino all’estero. Si stima che solo il 20 percento dei 160
mila sfollati sia andato nelle abitazioni provvisorie fornite dallo Stato e
dagli enti locali. Questo rende molto difficile per i comuni ubicare i loro abitanti
e di conseguenza anche ricostruire le comunità locali. La seconda
caratteristica è che non si ha alcuna idea di quando si possa tornare a casa. È
una situazione mai verificata con altri terremoti, anche gravi». Alcuni
sostengono che in certe zone per il ritorno definitivo occorrono almeno 5 anni.
E nell’incertezza non è possibile riorganizzare a lungo termine la vita, il
lavoro e le scuole per i figli. «Il terzo
fenomeno è la frammentazione della famiglia», conclude il professore: «di
trentamila famiglie che residevano nelle zone più vicine alla centrale
nucleare, il 98 percento vive separato».
La cifra suscita uno sgomento nella delegazione. Ebbene, quasi tutte le
persone che abbiamo incontrato, giovani e meno giovani, in effetti, dicevano che
i familiari sono lontani, e li possono vedere appena una volta a mese.
Ma, il governo giapponese non aveva dichiarato qualche mese fa che l’allarme
era cessato?
«A
Fukushima nessuno ci crede», rispondono tutti gli interlocutori. «Come si
può prendere sul serio se a un metro da terra i contatori registrano 1 microSievert
all’ora? E la radioattività peggiora se ci si avvicina alla superficie, habitat
dei bambini, senza parlare degli hot spot
qua e là … Chi può se ne va o cerca
di allontanare almeno i figli».
Come potrebbero reagire diversamente i cittadini, se finora le autorità
non hanno fatto altro che negargli informazioni precise in tempo reale, minimizzare
i danni e scaricare le responsabilità sugli altri.
«Il Governo
giapponese, troppo impegnato a dichiarare al mondo che nel Paese è tornata la
normalità, non ha dato nemmeno indicazioni sul futuro dei 160mila rifugiati di
Fukushima» dice ancora il professor Tanba con un tono pacato, ma subito
aggiunge, «Ciò che più ci preoccupa è che, col passare del tempo, il problema di
Fukushima diventi un problema esclusivamente nostro, e di essere dimenticati dal
resto del mondo».
Costretti a gestire tutto da
soli
I racconti degli abitanti di Fukushima ci lasciano a bocca aperta.
Kentaro Hasegawa, allevatore di mucche nonché amministratore della
frazione di Maeta nel villaggio di Iitate-mura, si trovava al comune quando si è
sparsa la notizia della prima esplosione della centrale nucleare. «Sono corso
subito da un tecnico che s’intendeva delle radiazioni. Mi ha detto che la situazione
era gravissima: ma quando stavo lasciando la sua stanza mi ha fermato per supplicarmi
di non dirlo a nessuno, nemmeno al sindaco». Hasegawa, però, non gli ha dato retta
e ha unito gli abitanti della sua frazione per fornirgli tutte le informazioni che
aveva e le raccomandazioni per minimizzare i danni. E mentre lui cercava di far
includere il villaggio tra i comuni da evacuare - presso autorità che
ragionavano solo in base ai raggi in chilometri - il comune faceva tutto per
tranquillizzare la popolazione, citando solo esperti che non vedevano rischi. « Volevano
evitare che la zona diventi un ghost town,
lo so, ma così ci hanno lasciato nel pericolo molto più lungo del necessario»,
si sfoga l’amministratore. «Da me sono venuti dei giornalisti con i
misuratori di radioattività. Hanno rilevato 1 milliSievert, cioè mille microSievert,
il massimo totale consentito per adulti in un anno, dove i bambini giocavano e i
bucati erano stesi».
Hasegawa del resto non si preoccupava solo dei bambini. Come i suoi
colleghi, è stato costretto a buttare il latte munto delle sue mucche dal 12
marzo fino ai primi di giugno, benché alla fine di aprile insieme agli altri aveva
deciso di chiudere la sua attività. «Non potete
immaginare che cosa prova un allevatore di mucche, quando è costretto a
macellare i suoi animali, l’unica cosa che ci hanno consentito di fare. Abbiamo
pianto tutti, ma il più straziato era questo giovanotto», ci racconta mostrandoci
una sua foto. «Era venuto da Tokyo esattamente dieci anni fa perché voleva fare l’allevatore
nel nostro villaggio».
Il 10 giugno, un allevatore si è suicidato per disperazione, lasciando
sul parete del suo bovile uno scritto: «se non ci
fosse stata la centrale nucleare (tutto questo si sarebbe potuto evitare)». Ne
parlò anche la stampa italiana. Era un suo carissimo amico.
«Né lo
Stato, né la Provincia o il Comune ci ha dato consigli e tanto meno sostegni.
Siamo stati costretti a decidere tutto da soli»: una frase che sentiamo ripetutere
durante la visita.
Ancora più drammatica è la storia di un giovane pompiere di Minamisoma. Da
pubblico ufficiale vuole rimanere anonimo, ma per offrirci la sua testimonianza
ci ha accompagnato in pullman dal comune di Date a Minamisoma.
Comincia a raccontare le esperienze sue e dei suoi colleghi, dopo aver
ringraziato in nome del comune gli ospiti stranieri per la solidarietà dimostrata
da tutto il mondo.
«Subito dopo la prima esplosione, le notizie erano molto confuse. Noi abbiamo
continuato di giorno e di notte il lavoro di soccorso come se nulla fosse
successo, poiché i tempi per salvare i dispersi ancora in vita stringevano». Anche
quando si è resa evidente la gravità della contaminazione, i vigili del fuoco hanno
dovuto continuare a lavorare coperti solo di un normalissimo impermeabile: «Nel nostro
comune, Minamisoma, benché sia confinante con il comune che ospita la centrale,
siamo dotati soltanto di protezioni chimiche e termiche. Non avevamo nulla
contro le radiazioni. Anche perché la Tepco ci diceva sempre che un incidente
nucleare era inconcepibile».
Poco dopo un’altra difficoltà: da quando il territorio è stato dichiarato
zona off limit, non sono più arrivavati rinforzi dei colleghi pompieri e della
polizia da altre zone del Giappone, come previsto nei casi gravi. «Abbiamo dovuto arrangiarci da soli per le
ricerche dei dispersi e i soccorsi.Siamo rimasti all’aperto senza le protezioni
che tardavano ad arrivare» continua il pompiere, finché «dopo 8 giorni,
finalmente ci hanno distribuito i misuratori e le protezioni necessarie».
Mentre parla, gli aghi dei misuratori a bordo del nostro pullman - che stava
attraversando proprio Iitate-mura - indicano 2,3 microSievert all’esterno e 1,5
all’interno. Pare che siano stati i dati più alti della giornata.
Fukushima: una pagina della
storia dell’umanità da ricordare
Kenta Sato è un altro giovane di Iitate-mura, trasferitosi ora nel comune
di Fukushima. «Volevamo andare via, fuori della Provincia, ma al comune ci
hanno detto di restare. Ora, siccome per i mesi di marzo e aprile siamo stati lasciati
esposti alle radiazioni, abbiamo deciso di organizzare per conto nostro un
monitoraggio della nostra salute, stampando 5.000 copie di questo taccuino
della salute da distribuire a tutti gli abitanti». Ha in mano un quaderno formato
B5 in cui i cittadini possono annotare la propria condizione fisica. “Potrebbe tornarci
molto utile fra 5 o 10 anni. Ci hanno dato dei consigli gli hibakusha di Hiroshima e i medici che gli
seguono».
Altro che l’emergenza superata dichiarata dal governo. Le conseguenze
delle radiazioni si trascinano per anni: siamo soltanto all’inizio di un’altra lunga
e tragica storia.
Ne parla un altro nostro accompagnatore, Maki Sato (nessuna parentela con
il primo), segretario generale di Jim-Net di Tokyo, organizzazione non
governativa giapponese che offre assistenza medica ai bambini iracheni malati
per l’uranio impoverito massicciamente utilizzato nelle due guerre. «Non avrei
mai immaginato di occuparmi anche di Fukushima» dice, poi spiega che curare gli
effetti delle radiazioni, soprattutto il cancro, è faccenda molto lunga che
richiede assistenza a tempo indeterminato. «È impossibile programmare. Non si sa
quando inizia la lotta né quando finisce. Perciò anche per Fukushima è importante
non dimenticare. Occorre mantenere alta la nostra attenzione per gli anni
futuri».
Per il signor Sato, tuttavia, non tutte le storie sono senza speranza. «Sapete
che nel 2003, quando gli angloamericani stavano per attaccare l’Iraq, Fukushima
deliberò una richiesta al Governo di Tokyo di fermarli? Fu l’unica provincia in
Giappone che fece questo atto, direi, coraggioso», ci dice quasi sorridente. «E
dopo il disastro dell’11 marzo, in Iraq ci sono state tante iniziative a favore
dei terremotati. Anche i ragazzi assistiti da noi hanno fatto collette dei
pochi soldi che avevano risparmiato».
Sarà una coincidenza?
Qualche legame speciale tra i due luoghi afflitti dalle radiazioni sembra che
ci sia già. Potrebbe darsi che siano questo genere di legami a riuscire a
salvare l’uomo.
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"Vorrei chiedere ai signori politici: tra la nostra vita e il denaro quale è più importante?” A rivolgere questa domanda dal palco della Conferenza di Yokohama è Yuuri Tomizuka, bambino di 10 anni rifugiato da Fukushima al comune vicino a Yokohama. “Ho un sogno: vorrei diventare un ingegnere che sviluppa le energie rinnovabili o un uomo che aiuta i prossimi. Perciò voglio crescere sano. Non posso ammalarmi e non voglio assolutamente morire! Noi bambini non abbiamo bisogno delle centrali nucleari che ci rendono soltanto infelici.”*************
versione pubblicata su il manifesto
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/argomenti/manip2n1/20120127/manip2pz/317108/?tx_maniabbonatimvc_pi2%5Bsezione%5D=INTERNAZIONALE&cHash=c3c493edcf00d689e3bcd1a943c98fa9
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