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disegno di Masaru Hashimoto |
il manifesto 2012.08.09 - p.16 L'ULTIMA
A cosa serve davvero il nucleare in Giappone?
Il mito delle centrali
sicure è tramontato con Fukushima.
Il governo insiste con la filiera
atomica, contro il volere dei cittadini, per un solo scopo: la capacità
militare
Dopo l'incidente della centrale nucleare di Fukushima, l'11 marzo 2011,
mi è stato spesso chiesto come abbia potuto il Giappone, che aveva già
vissuto gli orrori di Hiroshima e di Nagasaki, disseminare ben 54
reattori atomici sul suo territorio, esponendosi di nuovo al rischio
radioattivo. La sola risposta che riuscivo a formulare chiamava in causa
l'abilità politica degli Stati Uniti, che sin dagli anni '50 ci hanno
inculcato l'idea del nucleare «a uso pacifico» capace di portare
benessere anche dove le risorse energetiche sono scarse - mentre il vero
obiettivo di Washington era zittire i movimenti antinuclearisti
imponendo l'immagine di una tecnologia atomica innocua e utile.
Dopo il 5 maggio scorso, quando l'ultimo dei 54 reattori esistenti in Giappone è stato fermato per un controllo periodico, rendendo di fatto il paese nuclear free, la domanda ricorrente è diventata: «a che servivano dunque tutte quelle centrali, se ce la fate anche senza?». Ora, di ritorno in Italia dopo un mese di soggiorno in Giappone, aggiungo il mio interrogativo: a che serve davvero il nucleare al Giappone?
Il dubbio sorge dal fatto che nella regione intorno alla
capitale, servita dalla famigerata azienda elettrica Tepco, non si parla
più dell'ordinanza per il risparmio di energia elettrica e tantomeno di
«blackout programmati», nonostante manchi la fonte nucleare che prima
dell'incidente copriva il 30% del fabbisogno. Tokyo se la passa
benissimo, nell'estate torrida di quest'anno, con i condizionatori
accesi dappertutto esattamente come 2 anni fa. Invece se andiamo in
Kansai, la regione di Osaka, Kyoto e Kobe, scopriamo che la
contestatissima riattivazione dei due reattori di Ooi nel mese scorso è
servita solo a spegnere diverse centrali termiche - ma non a revocare
l'ordinanza sul risparmio né l'allarme blackout, ciò per cui il governo
giustificava la sua decisione. Per far rientrare l'emergenza il
presidente dell'azienda elettrica ora pretende di rimettere in moto
anche altri reattori. Ma i dati parlano chiaro: la regione dispone già
elettricità sufficiente anche senza il nucleare.
Intanto
il governo di Tokyo ha proposto i nomi per la direzione di un nuovo
organo di controllo dell'energia atomica, istituito per rendere le
autorità più indipendenti dall'industria nucleare: scopriamo però che
sarà diretto da personaggi già noti per i loro stretti rapporti con la
lobby nucleare. Gli incontri pubblici organizzati in varie città per
discutere la politica energetica nazionale hanno evidenziato una chiara
opposizione popolare al nucleare e il tentativo disperato e malcelato
del governo di escludere quest'opzione. L'esecutivo mantiene ferma la
sua posizione anche in materia di esportazione degli impianti nucleari. E
questo a dispetto al rapporto della commissione d'inchiesta istituita
dal parlamento sull'incidente di Fukushima, presentato solo un mese fa:
la relazione di 641 pagine imputava senza mezzi termini l'incidente
all'irresponsabilità dell'azienda elettrica e dell'organo di controllo,
denunciando la sudditanza del secondo alla prima, che ha impedito di
prevenire il disastro, umano e evitabile.
A dire il vero, non è
difficile spiegare l'insistenza del governo giapponese sul nucleare.
Basta avere il coraggio di nominare l'innominabile: lo scopo militare.
D'altronde è un segreto di pulcinella. Un esponente politico di destra,
l'ex ministro della difesa Ishiba, lo ha detto chiaro un anno fa: «Va
bene ridurre la dipendenza dal nucleare, ma il Giappone non può chiudere
tutte le centrali perché questo ci toglierebbe la possibilità di
sviluppare armi atomiche qualora le circostanze internazionali lo
rendessero opportuno, visto che i nostri vicini ne dispongono già».
Se
diciamo addio all'energia atomica, in effetti, bisogna dire addio anche
al ritrattamento del combustibile esausto e all'estrazione del
plutonio, che si giustificava con il riutilizzo del combustibile per
generare elettricità (anche se finora vari problemi tecnici hanno
impedito le operazioni). Salvare alcune centrali nucleari contro la
volontà popolare è l'unico modo per il Giappone di mantenere la filiera
atomica senza vedersi mettere tra i «cattivi» come l'Iran e la Corea del
Nord. Anche l'esportazione di impianti, con la possibilità di ritirarne
il combustibile esausto, offre un'ottima scusa per rimanere nel
business atomico.
Per la stragrande maggioranza dei giapponesi però
questa prospettiva è decisamente inaccettabile. Lo dimostrano diversi
sondaggi d'opinione e le manifestazioni popolari ormai quotidiane. Una
conferma arriva perfino dal sindaco (eletto con i partiti conservatori)
del comune di Hiroshima: Kazumi Matstui commemorando il
sessantasettesimo anniversario del bombardamento atomico su Hiroshima
tre giorni fa ha detto che «l'11 marzo 2011 è una data indimenticabile
per l'umanità» a causa dell'incidente alla centrale nucleare di
Fukushima. «Le persone colpite e costrette tutt'ora a una vita assai
difficile hanno molte cose in comune con la popolazione di Hiroshima di
67 anni fa»», ha aggiunto: «E' in corso un dibattito nazionale sulla
politica energetica che fa tesoro dell'esperienza dell'orribile
incidente e della lezione sull'incompatibilità tra il nucleare e
l'umanità». Il sindaco di Hiroshima chiede al governo «una politica
energetica che salvaguardi la vita e la sicurezza dei cittadini. E che
il Giappone, unico paese al mondo bombardato con armi atomiche,
facendosi carico dei sentimenti di Hiroshima e Nagasaki spinga il mondo
alla totale abolizione delle armi nucleari».
Un'umanità che rifiuta il nucleare
Sembra
quasi che sull'arcipelago giapponese vivano due razze umane diverse e
incomunicabili tra di loro. Il professor Takao Takahara, docente di
politica internazionale all'Università di Meiji Gakuin, è da tempo
impegnato nei movimenti antinucleari e porta spesso gli studenti
americani a Hiroshima e Nagasaki. Dice che di solito la visita cambia
radicalmente il loro modo di pensare: «Sono giovani spesso convinti che
sia giusto rispondere con le armi agli attacchi militari. Ma dopo la
visita alle città e i racconti dei sopravvissuti si ricredono, dubitano
che un atto di tale crudeltà sia da augurare nemmeno al peggior nemico».
Non
ci sarà un modo di cambiare anche le opinioni dei politici nuclearisti?
Il barlume di speranza si affievolisce appena ripenso a Yasuhiro
Nakasone, ex criminale di guerra che diventò il primo ministro
giapponese tra 1982 e 1987 nonché amico fidato di Ronald Reagan; alle
notizie del devastante bombardamento a Hiroshima, ancora giovanissimo
Nakasone pensò subito che armare il paese del nucleare fosse la prima
cosa da fare; nella sua lunga carriera politica non riuscì nell'intento e
dovette accontentarsi del ruolo del promotore dell'energia atomica in
Giappone con il beneplacito di Washington.
Eppure c'è un'umanità di
natura esattamente opposta. Sono numerosi i cittadini, noti e anonimi,
che prima dell'11 marzo 2011 non si preoccupavano affatto delle centrali
nucleari: poi l'incidente li ha scossi dal torpore e fatto capire che
le autorità non sono lì per proteggerli. E in questa presa di coscienza
devono molto a alcuni personaggi, professionisti indipendenti, oggi noti
e ascoltati ma solo 2 anni fa pressoché sconosciuti.
Naomi Toyoda
potrebbe rappresentarli tutti: fotoreporter di 55 anni specializzato nei
conflitti mediorientali, è stato anche in Italia per documentare alcuni
casi di militari italiani ammalati per l'uranio impoverito. Toyoda è
stato tra i primi fotografi entrati nei paraggi della centrale di
Fukushima Daiichi dopo il sisma. «Quando eravamo giovani chiedevamo ai
genitori perché non opposero alla guerra. Ci rispondevano che non gli fu
possibile perché nessuno la contestava», racconta il fotografo. «Ora,
cosa rispondiamo ai ragazzi sulle centrali nucleari? Accetteranno una
risposta simile a quella dei nostri genitori?». Lui si sente colpevole
di non aver potuto impedire l'accaduto, sia come un cittadino adulto ben
informato che come giornalista. Così da un anno e mezzo frequenta le
zone colpite e gira tutto il paese per esporre foto e parlare in
conferenze. «Mi dispiace davvero e non so cosa non darei per rimediare
questo disastro; ma tutta la vita che mi resta non basterebbe a
riportare le terre, l'aria e l'acqua incontaminate come prima», dice
costernato davanti a un nutrito gruppo di attentissimi liceali.
L'inconsolabile senso di colpa
Sembra
irragionevole sentirsi in colpa per qualcosa contro cui lui stesso ha
lottato per decenni. Ma questo voler chiedere scusa ai giovani, come se
l'incidente sia frutto di una loro negligenza, è una reazione comune ad
altre persone impegnate nella battaglia contro nucleare. Anche molte
madri dicono di sentirsi in colpa per non aver potuto proteggere i figli
e si vergognano per la propria ignoranza e indifferenza al tema prima
del disastro.
«Dopo l'11 marzo sento come se fossi diventata un altro
animale», scrive Yuka Nishioka, fumettista e autrice del bel volumetto
Sayonara, Atomic Dragon, una storia delle armi atomiche e dell'energia
nucleare raccontata a una ragazzina per bocca di uno scienziato
giapponese e di un suo nipote nato in Europa subito dopo l'incidente di
Cernobyl, da cui ha ricavato problemi congeniti. «I sopravvissuti di
Nagasaki ci raccontavano che per loro il tempo si è fermato al 9 agosto
1945, quando la bomba al plutonio è stata sganciata sulla città. Loro
dicevano di voler rimanere le ultime vittime dell'atomica», racconta
Nishioka. «Anche io sono di Nagasaki, ma solo dopo Fukushima ho compreso
appieno il senso delle loro parole». Già: per non pochi giapponesi
l'esperienza di Fukushima ha dato un significato nuovo alla ricorrenza
di Hiroshima e Nagasaki.
Akira Kawasaki è un rappresentante di Peace
Boat e grande esperto della politica internazionale per la
denuclearizzazione mondiale. A un anno e mezzo dall'incidente, dice, è
il momento di fare un quadro generale dei danni provocati: dall'attività
produttiva all'ambiente, alla salute degli abitanti e dei lavoratori,
alla distruzione delle comunità locali. «Guardare in faccia la realtà
della devastazione significa rendersi conto del rischio atomico». E
s'interroga: «Il mito delle centrali nucleari sicure è ormai in
frantumi. Ma l'idea che nessuno oserà usare un'arma atomica? Non è anche
quello un mito?». Kawasaki sostiene che la consapevolezza sul rischio
nucleare in Giappone non è mai stata così alta, concreta e diffusa come
in questo momento, ma l'attenzione andrebbe estesa alla sfera militare.
«Se l'impianto di ritrattamento di Rokkasho-mura entrerà in funzione,
ogni anno produrrà plutonio pari a 1000 bombe. L'attaccamento del
Giappone al nucleare non solo crea enormi problemi di rifiuti
radioattivi per il nostro paese, ma spingerà anche i vicini a ricorrere
al nucleare».
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