“Ridateci i monti
ridateci i fiumi
ridateci i mari
ridateci Fukushima
ridateci il Giappone
ridateci il futuro per i bambini
ridateci il mondo senza contaminazione radioattiva”
L’accorato appello del noto musicista giapponese
Ryūichi Sakamoto parafrasa la famosissima poesia “Ridatemi gli esseri umani” di
Tōge Sankichi, sopravvissuto di Hiroshima che chiede di riavere tutti i cari
annientati dalla bomba atomica del 1945. Oggi questo è senz’altro il sentimento
condiviso dalla stragrande maggioranza dei giapponesi.
La
speranza del ritorno si fa sempre più fievole, per la gente di Fukushima.
Il 3
aprile infatti il ministro dell’ambiente Gōshi Hosono ha evocato per la prima volta un’area per
cui sarà dichiarata definitivamente l’impossibilità di tornare. Per ora è solo
la posizione personale di un ministro, in un governo che al contrario preme per
accelerare i tempi del rientro della popolazione nelle zone evacuate dopo il
disastro dell'11 marzo 2011.
Se non fosse per la disperazione degli interessati
sarebbe perfino un piccolo segno positivo, di fronte a un governo che minimizza
tutto per riprendere al più presto la
produzione di energia nucleare. Parlando al primo anniversario del disastro il primo ministro
Yoshihiko Noda non ha avuto remore a dichiarare la sua ferma intenzione di
riattivare al più presto alcuni reattori, benché l’emergenza di Fukushima non
sia affatto rientrata né siano state chiarite le cause esatte dell’incidente.
«Andrò io personalmente a convincere i locali qualora si decidesse la
riattivazione», ha detto Noda suscitando l’ira dei cittadini e degli enti
locali intorno alle centrali atomiche.
Anche
perché, chi sono esattamente «i locali»?
La domanda è legittima, dopo Cernobyl
e Fukushima. L'esperienza insegna che le radiazioni se ne infischiano sia dei
confini amministrativi, sia anche dei raggi di chilometri dalla fonte di
contaminazione.
Secondo
il governo di Tokyo, i primi reattori da riattivare sono quelli numero 3 e 4
della centrale di Ooi, circa 60 km a nord dell’antica capitale Kyoto, nella
provincia di Fukui che ospita il maggior numero di reattori nucleari in
Giappone: 13 impianti più altri due in progettazione in un territorio poco più
grande della provincia di Nuoro con circa 800 mila abitanti.
Se rimaniamo al
concetto di «locali» finora adottato, ad avere voce in capitolo sarà soltanto
la maggioranza dei 14 consiglieri e il sindaco del piccolo villaggio di Ooi-cho
(ottomila abitanti di cui la maggioranza lavora alla centrale).
In passato il
parere degli enti locali circostanti non ha influito sulla decisione di un
comune che ospita una impianto, tanto meno su quella del governo centrale. Ad
esempio la città di Obama, comune confinante con Ooi-cho, ha sempre resistito
all’assiduo corteggiamento dell’azienda elettrica e di recente ha approvato a
unanimità del consiglio comunale la richiesta di non attivare la centrale nel
villaggio vicino. Tuttavia, la volontà dei suoi trentamila abitanti non ha mai
disturbato i quattro reattori di Ooi.
Ora
però, per fortuna tra le sfortune, Fukushima ha svegliato molti altri
amministratori locali.
A livello provinciale, sia Kyoto che Shiga, provincia a
est di Kyoto confinante con quella di Fukui, si sono già espresse contro la
riattivazione dei reattori. A Shiga in particolare preoccupa la vicinanza delle
centrali al più grande lago giapponese, Biwako, che fornisce acqua a oltre 14
milioni di abitanti della regione inclusa Osaka. Yukiko Kada, governatrice di
Shiga, è stata tra i primi amministratori locali a esprimersi per l’uscita
dalla dipendenza nucleare, dopo l’incidente di Fukushima. Antropologa e
sociologa, la governatrice sostiene: «Il rispetto della natura e la
consapevolezza dell’impotenza umana che caratterizzano la cultura giapponese sono
radicalmente legati al territorio, costretto a convivere con frequenti calamite
naturali quali terremoti. L’energia nucleare, che si basa su una convenienza
economica miope, è incompatibile con la nostra cultura».
Gli
amministratori non sono i primi né gli unici ad alzare la voce. «Se non
riusciamo a fermarla ora, altre riattivazioni seguiranno e le aziende
elettriche, il governo e tutti i nuclearisti faranno finta che non sia successo
nulla a Fukushima», dicono molti cittadini alle manifestazioni di protesta,
ormai divenute quotidiane. «Finiremmo per diventare complici del prossimo
disastro».
monaco Nakajima alla manifestazione di Fukui |
Tetsuen
Nakajima è un monaco buddista del tempio Myōtsū-ji, nel comune di Obama,
conosciuto per la sua quarantennale battaglia contro le centrali in Fukui.
All’apertura di una manifestazione nel capoluogo della provincia, lo scorso 25
marzo sotto una pioggia tempestosa mista a neve, ha annunciato l’avvio di un
digiuno per chiedere perdono ai 360 mila bambini e tutti gli esseri viventi
vittime del disastro di Fukushima, e affinché sia evitato il rischio di una
Fukushima bis.
«Alla fine della seconda guerra mondiale, nonostante fosse
chiara a tutti la sconfitta disastrosa del nostro paese, l’esercito imperiale
giapponese non seppe arrendersi fino alle bombe a Hiroshima e a Nagasaki»,
ricorda il monaco: «Ripeteremo lo stesso errore anche con il nucleare? Davvero,
l’esperienza di Fukushima non ci basta?».
A
quanto pare, ai 14 consiglieri comunali di Ooi-cho proprio non basta.
E a
questi si aggrappa il governo di Tokyo, che spera di cominciare a riattivare i
53 reattori ora fermi prima che l’unico e ultimo reattore ancora in funzione a
Hokkaido entri nel periodo di sospensione, all’inizio di maggio. Ci riuscirà?
Il
3 aprile il governo ha deciso di rimandare la decisione «vista la forte
resistenza delle province confinanti». Ma, il giorno dopo, il segretario del
primo ministro ha aggiunto che «dal punto di vista legale il consenso degli
enti locali non è indispensabile per la nostra decisione». Nello stesso
momento, però, il ministro dell’economia e dell’industria definiva «precoce» la
riattivazione dei reattori e il suo collega dell’ambiente parlava di zona off limits a tempo indeterminato per
Fukushima. Insomma, neanche tra i quattro ministri che dovranno decidere
insieme sulla riattivazione dei reattori nucleari, per ora, non esiste una
posizione condivisa. Tutto potrebbe dipendere, dunque, dalla forza delle voci
popolari e degli enti locali che si oppongono al ritorno al nucleare.
I rappresentanti contro i rappresentati
Qualcosa
sta davvero cambiando, in Giappone.
Da qualche mese la società giapponese è
entrata in una fase politica del tutto nuova. Alla fine di giugno scorso è nato
un gruppo di cittadini che chiede un pronunciamento popolare sul futuro dell’energia
nucleare. Durante l’inverno a Osaka e a Tokyo si sono costituiti comitati
referendari che hanno raccolto firme, superando ampiamente i numeri necessari
per richiedere all’amministrazione locale di istituire una legge che indica un
referendum sul nucleare. Le due metropoli sono tra i maggiori consumatori di
energia elettrica di origine nucleare, ma anche nelle zone produttrici si
stanno formando comitati con lo stesso intento; a Niigata e a Shizuoka la
campagna partirà in questi giorni.
Mme Uehara |
«La
notizia della vittoria del referendum contro il nucleare in Italia è stata
veramente sensazionale e ci ha incoraggiato molto», dice Hiroko Uehara, ex
sindaco del comune di Kunitachi nella provincia di Tokyo, una dei più attivi
promotori del comitato referendario nella capitale giapponese. «E' stata una
scoperta per molti di noi che i cittadini possono esprimersi anche su una
questione come l’energia nucleare, considerata affare dello stato».
In
realtà, non è la prima volta che si parla di referendum sul nucleare in
Giappone. Sin dai primi anni ’80 si conta una trentina di tentativi di
referendum consultivo a livello locale sull’opportunità di costruire impianti
nucleari nel territorio, per iniziativa a volte di cittadini, a volte di
amministratori. Nella maggior parte dei casi le richieste non sono state
accolte (tra questi uno riguarda proprio Ooi-cho, la richiesta degli abitanti
respinta nel 1983); tre casi però sono andati in porto tra il 1995 e il 2000:
tutti hanno portato alla vittoria schiacciante del No, facendo naufragare i
progetti.
pm Sakurai (a sinistra) e Hajime Imai a una conferenza stampa a Tokyo |
Il
nuovo movimento, partito a livello locale, punta ora a un referendum nazionale
sull'energia atomica in Giappone, ed è assai diverso da quello italiano, che ha
una funzione abrogativa delle leggi esistenti. «Il nostro obiettivo principale
è rendere i cittadini partecipi della decisione politica sul nucleare», spiega
Hajime Imai, giornalista e uno dei maggiori esperti in materia di referendum in
Giappone e nel mondo: «Anche se ognuno di noi ha un’opinione chiara in merito,
il comitato non esprime una posizione pro o contro l’energia atomica». Il
giornalista fa notare il divario che si è creato tra l’opinione pubblica,
all'80 percento favorevole ad abbandonare il nucleare, e il parlamento che non
rappresenta affatto una tale proporzione: «Il nostro non è un tentativo di
delegittimare la democrazia indiretta bensì di colmare le sue lacune. I
cittadini offrono la base sostanziale affinché il governo o il parlamento
prendano decisioni più democratiche su questioni vitali che riguardano il
futuro di tutti».
Il
referendum giapponese dunque mira innanzitutto a un’educazione di democrazia,
rendere i cittadini più consapevoli e responsabili in politica attraverso lo
studio e l’ascolto degli esperti. E condividere le informazioni sull’argomento
dovrebbe garantire anche maggiore trasparenza nelle prassi decisionali della
politica. «Sarà utile anche per ricuperare la fiducia nella politica che i
cittadini stanno perdendo», afferma Mitsuru Sakurai, parlamentare del Partito
democratico che la scorsa estate ha formato un gruppo parlamentare per
promuovere il referendum.
Miyako
Maekita, altra promotrice del referendum nazionale, lo considera un esame di
maturità per i giapponesi: «Penso che siamo ormai pronti a prendere una
posizione e assumerci la responsabilità delle conseguenze», dice.
Nel
frattempo il consiglio comunale di Osaka ha respinto la richiesta di referendum
presentata dai cittadini alla fine di marzo; lo stesso si annuncia anche a
Tokyo, per bocca del governatore Shintaro Ishihara, che ha liquidato la
richiesta referendaria con un tassativo «non è possibile né ho la minima
intenzione di accoglierla», definendo i cittadini che vogliono abbandonare il
nucleare «scimmie primitive».
«Passeremo
alla fase del dialogo individuale», ribatte il giornalista Imai: «Affronteremo
gli amministratori che hanno respinto la richiesta, uno per uno, e faremo in
modo che non siano rieletti se non cambiano atteggiamento».
Imai è abbastanza
sicuro che i politici rispetteranno gli esiti del referendum.
«In Giappone
finora si sono svolti 401 referendum consultivi locali e gli esiti sono stati
sempre rispettati tranne un caso, sulla base militare in Okinawa. Figuriamoci
se il governo giapponese avrà il coraggio di cestinarlo davanti all’intero
mondo che ci osserva».
La questione della democrazia e non solo
«I
due mesi di raccolta delle firme sono stati massacranti e nello stesso tempo
illuminanti», racconta Hiroko Uehara, l’ex sindaco e ora promotrice della
campagna referendaria nazionale nonché animatrice del network degli
amministratori locali per città libere dall’energia nucleare, che si estende
tra Giappone e Corea del Sud.
«La partecipazione dei giovani, che prima dell’11
marzo erano poco o per niente interessati alla politica, è stata formidabile e
decisiva per raggiungere il primo obiettivo. Hanno capito che la sorte del
mondo dipendeva anche da loro e si sono dati da fare. E, attraverso i dialoghi
con i cittadini durante la campagna, ci siamo resi conto che nonostante
l’esperienza di Chernobyl le informazioni sui rischi delle radiazioni sulla
salute non sono molto diffuse».
Con un tono rammaricato aggiunge: «Il colpo più
duro, invece, è quello che nessuno si aspettava: i vecchi militanti
antinuclearisti hanno rifiutato di collaborare con mille scuse, soprattutto
perché temevano che il referendum faccia vincere la posizione nuclearista. Nei
loro atteggiamenti mi sembra di individuare le cause di tanti insuccessi delle
battaglie per la democrazia nel nostro paese».
“Quando
parliamo del nucleare, non siamo di fronte a una semplice scelta sulle fonti
energetiche. Qui a essere in discussione è la democrazia del nostro paese”,
dice Tatsuya Yoshioka, uno dei rappresentanti dell’ong Peace Boat e direttore
del comitato organizzativo della Conferenza globale per un mondo senza nucleare
svoltasi a Yokohama lo scorso gennaio. «La credibilità e affidabilità del
Giappone sono precipitate dopo l’incidente di Fukushima a causa della scarsa
trasparenza nella gestione. La riattivazione delle centrali gli darebbe
l’ultimo colpo di grazia. Siamo su un banco di prova che potrebbe cambiare il
nostro futuro».
Per
l’avvocato Chūkō Kondō di Kyoto si tratta di una lotta per la sopravvivenza
umana ancora prima che per la democrazia. Kondō, oggi ottantenne, aveva
ottenuto la prima vittoria nelle battaglie legali delle vittime di inquinamento
industriale che duravano da cent’anni. Nel 1971 il riconoscimento della
responsabilità dell’azienda e dello stato riguardo alla sindrome Itai-itai,
causata dall’acqua contaminata di cadmio scaricato da una miniera, segnò una
svolta in una storia piena di dolorose sconfitte delle popolazioni sacrificate
a nome dell’industrializzazione. Ora, dopo l’incidente di Fukushima, l’avvocato
ha deciso di dedicare il resto della sua vita a questa causa: ha cominciato ad
assistere alle vittime di Fukushima e intrapreso la preparazione di una causa
contro «la zona della più alta concentrazione delle centrali nucleari su questo
pianeta», cioè Fukui. La causa, che sarà presentata a Kyoto, dovrebbe
coinvolgere 10 mila cittadini come parte civile. «Equivarrà a una campagna
referendaria», sostiene Kondō. Le esperienze sue e dei suoi colleghi nel
faticosissimo cammino per far valere i diritti di non essere sacrificati a nome
della modernità saranno una preziosa arma.
La
politica giapponese non sembra affatto risentire dell’accaduto, resta identica
a ciò che era prima dell’11 marzo 2011. Tra movimenti referendari e azioni
legali, i cittadini riusciranno a scuoterla?
«Io credo di sì», risponde
l’avvocato Kondō, «sento che in Giappone sta cambiando davvero qualcosa». Sta
germogliando qualche piccolo seme di un mutamento radicale nella società
giapponese.
Yukari Saito©
L'articolo pubblicato sul quotidiano il manifesto del 8 aprile 2012
Nessun commento:
Posta un commento